LA MIA ESPERIENZA IN VIETNAM.......
Quando a un minuto dalla conclusione della finale terzo e quarto posto contro la Malesia, sul tre a due per gli avversari, in bilico tra l’eliminazione e il trionfo, Sergio Gargelli ha visto partire quel tiro, ha avuto la lucidità di fermarsi per un istante. E di pensare a tutte quelle cose che lo avevano portato nel giro di due mesi a Giakarta, in Indonesia, a pregare per un tiro.
In due mesi, appunto: da quando Sergio rispose a una telefonata che sembrava uguale a tante altre, con la differenza che un tizio mai sentito prima, dall’altra parte, gli comunicava di averlo scelto per allenare la nazionale del suo paese. E quando lui chiese: “Fantastico, che paese è?” si sentì rispondere: “Il Vietnam”.
Questo, all’incirca, è successo a Sergio Gargelli, 35 anni, toscano della provincia di Firenze. Allenatore di calcio a 5 a Prato nel campionato italiano e poi due anni nella serie A giapponese, grazie a un contatto trovato in Spagna durante uno stage. L’Italia, l’Europa, e poi il mondo, a Ho Chi Minh City, quella che un tempo era Saigon, nel Vietnam del Sud. Sergio fa le valigie e parte, senza pensarci su troppo. “Mi hanno proposto un contratto di due anni, ma io ho accettato solo per due mesi - sono le prime dichiarazioni a un piccolo gruppo di giornalisti locali, il giorno della presentazione - Mi gioco in Indonesia le qualificazioni alla coppa d’Asia, e se centreremo l’obiettivo andrò al torneo. Altrimenti me ne torno a casa, o meglio ancora, mi cerco un altro paese. Voglio diventare il Bora Milutinovic del calcio a 5.”
Già, ma Bora ha trionfato ovunque e in Vietnam, sin da subito, la sfida è sembrata quasi impossibile. Innanzitutto per il livello ancora troppo basso di campionato e calciatori (“In Italia i nazionali del Vietnam sarebbero giocatori da bassa serie B”) e perché poi, come se non bastasse, c’è attorno al calcio uno spaventoso giro di scommesse e partite vendute. Inevitabile, quando girano tanti soldi per tutti tranne che per loro, i giocatori: il più ricco si porta a casa meno di 200 euro al mese, e se è vero che in Vietnam ceni al ristorante con due, è altrettanto vero che di solo calcio non si può vivere.
Molti giocatori della squadra nazionale (“15 su 19, per la precisione”) lavorano così per l’ingegnere elettronico Tran Ahn Tu, uomo distinto sulla quarantina nonché sponsor della federazione. Proprietario di due club, uno ad Hanoi e l’altro appunto ad Ho Chi Minh City, paga di suo stipendi e trasferte. Ed è lui, chiaramente, ad avere fatto le convocazioni per la selezione nazionale, pescando tutti i giocatori nelle sue due squadre di club. Ad una condizione, però: che oltre ai piedi da calciatore avessero pure le braccia da operaio: perchè al mattino si gioca a pallone e al pomeriggio si lavora per l’azienda.
A Tran Ahn Tu, del resto, è concesso tutto, da quando ha fatto costruire il campo nel quale la squadra si allena e che oggi i suoi operai utilizzano come magazzino per scaricare container e scatoloni. “Quando ho visto il centro sportivo per la prima volta mi sono detto: cominciamo bene. Poi ho visto in faccia i giocatori e mi sono chiesto: e adesso cosa faccio?”, ha commentato Gargelli.
“Sono piccoli, sembrano quasi denutriti”, dice il preparatore atletico spagnolo Antonio Gallardo, 30 anni, ex capitano nella cantera del Recreativo Huelva di calcio a 11 e campione regionale di judo, quattro lauree in tasca e una certa irrequietezza di fondo. Antonio fa parte dello staff della nazionale insieme a N’Go Le Bang, ex calciatore e ora traduttore, considerato però tutt’altro che attendibile.
E’ un gruppo eterogeneo, insomma, assemblato con un’unica missione: qualificare la nazionale del Vietnam alla fase finale di una competizione internazionale, cosa mai successa nel paese tra calcio e futsal. “In 4 settimane devo preparare una competizione per la quale mi servirebbe almeno il doppio del tempo”, ha detto Gargelli al primo allenamento. “Siamo in un gruppo con Cambogia, Malesia e Filippine. Un gruppo tosto.” Già, tostissimo: anche perché Sergio non ha avuto il tempo di visionare i giocatori e poi sceglierli. E così, quando ha disputato la prima amichevole dopo una settimana di preparazione, si è trovato a giocare con una squadra di dilettanti della città dal valore insospettato: “Ce n’erano due o tre che avrebbero potuto giocare tranquillamente in nazionale, ma non potevano liberarsi dal lavoro per un periodo così lungo.”
Mille problemi, insomma, ai quali se ne è aggiunto un ultimo: l’infortunio del giocatore più talentuoso, il centravanti scivolato in casa sul pavimento bagnato rompendosi il menisco. L’operazione, lo stop, e addio torneo.
Per Sergio era un giocatore fondamentale, uno che da subito si era adattato benissimo ai ritmi del nuovo ct: “Prima di me c’era un coach thailandese che li faceva allenare un paio d’ore e poi li teneva liberi per tutto il resto del giorno. Ora con me si allenano due volte al giorno, 3 ore e mezza a sessione. Poverini, sono distrutti”. Sergio Gargelli ha preso il suo lavoro sul serio. Si alza alle 6 del mattino, fa colazione, prepara l’allenamento, e alle otto raggiunge il campo d’allenamento con l’autista che gli ha messo a disposizione la federazione. Alle 11 e mezza finisce la sessione, torna in albergo (un bell’hotel in stile occidentale nel distretto 7 della città, zona residenziale), studia il video dell’allenamento, pranza, torna al campo, dirige un nuovo allenamento, ritorna in albergo, cena e si rimette al lavoro fino a mezzanotte e passa. E’ un patito di telecamere e nuove tecnologie, e così lavora sui video della sua squadra e su quelli delle avversarie, messi a disposizioni da allenatori di altri paesi conosciuti nei due anni in Vietnam. “Ma non di tutte le squadre ho immagini: ad esempio della Cambogia, prima di affrontarli, non sapevo assolutamente nulla”. Tiene sul letto una bandiera del Vietnam, non sa l’inno ma si limita a mettere la mano sul cuore, perché è nel cuore che il Vietnam e i vietnamiti gli sono già entrati. “Questo è il paese dei contrasti, dove vedi sfilare centinaia di motorini e ogni tanto passa la Ferrari, dove molta gente mangia alle bancarelle per strada e chi se lo può permettere va nei club per i nuovi ricchi”. Un paese in rapida costruzione, dove ogni tanto ti imbatti nei ricordi della guerra: “Capita di vedere in giro vietnamiti con gravi malformazioni, conseguenza delle armi batteriologiche usate durante la guerra”. E’ un viaggiatore, Sergio Gargelli (“Se potessi ritornare in un posto in cui sono già stato sceglierei il Pakistan”), e difficilmente tornerà in Italia. Per ora lavora per un unico grande obiettivo: lanciare il futsal in un paese dove ad essere seguitissimo è il calcio (ad ogni ora le televisioni vietnamite trasmettono partite della Premier League e della nostra serie A), e chissà, magari alzare anche qualche coppa. Nel caso, l’ha detto già il giorno dell’insediamento al mecenate della federazione: i soldi non gli interessano. Sergio Gargelli vorrebbe soltanto che gli venisse intitolato, come a Guus Hiddink in Corea, lo stadio in cui gioca la nazionale.
Se lo è immaginato per due mesi, quel capannone fatiscente e col fondo irregolare, con l’aria irrespirabile rinfrescata da due enormi ventilatori, e coi palloni che se finiscono lunghi vanno a cozzare contro pile gigantesche di container industriali. Se lo è immaginato per due mesi, quel campo alla periferia del nostro mondo, tra i clacson dei motorini e il sapore meraviglioso dell’Asia, con una targa all’ingresso: “Benvenuti nel Sergio Gargelli Stadium”. Se lo è immaginato per due mesi, ed è stato l’ultimo pensiero prima che quel pallone contro la Malesia, sul tre a due per gli avversari, entrasse in porta. Tre a tre.
Sergio Gargelli aveva iniziato alla grande le qualificazioni alla coppa d’Asia: 12-2 alla Cambogia, 4-1 alle Filippine, 2-2 alla Malesia. Poi la sconfitta contestata ma prevista contro l’Australia, in semifinale, e l’attesissima finale per il terzo e quarto posto. Perché a giocarsi la coppa d’Asia sarebbero andate solo le prime tre del girone, e il sogno poteva continuare solo vincendo quella partita.
L’inno con la mano sul cuore, il miglior giocatore fuori per infortunio, l’interprete che traduceva le sue direttive, gli schemi provati nel capannone con i container. Uno, due, tre gol. Sei a tre. Per la prima volta nella storia del paese, il Vietnam va a giocarsi la fase finale della coppa d’Asia di calcio a 5, in Uzbekistan.
Sergio può continuare ad immaginare quella targa con il suo nome. Come Guus che ha vinto tutto, e come Bora che ha girato il mondo.